Il rock dei Jethro Tull è ancora avanti: lo era negli anni ’70, lo è ancora oggi. Il racconto, le foto e il video dal Tyche Festival
Era martedì pomeriggio, quel 2 febbraio del lontano 1971, quando due ragazzini entrarono al teatro Brancaccio di Roma alla conquista di due posti. La passione del rock era forte in quel periodo: già ascoltare un disco diventava un rito irrinunciabile. La puntina del giradischi partiva dall’inizio del vinile e scivolava inesorabile fino all’ultimo brano. Poi, con una piccola acrobazia della punta delle dita, si alzava e si rigirava quel 33 giri, tanto atteso, tanto desiderato ed ora tanto considerato. Ma, in quel martedì pomeriggio, si trattava di molto più: la possibilità di materializzare un sogno, l’incontro con la rockstar. Invece, nella penombra, un musicista vestito da mendicante con la chitarra in mano annuncia che i Jethro Tull si sono sciolti e che il concerto lo farà lui da solo. Le note erano di una nuova canzone, mai sentita, intitolata “My god”. Una voce roca ma ammaliante accompagnava quella chitarra acustica dall’arpeggio delicato ma anni luci dal rock che quei ragazzini volevano ascoltare. Lui si ferma, appoggia lo strumento e in un istante le luci si accendono improvvisamente e magicamente esplode la musica. Ora Ian Anderson su un piede solo ha imbracciato il flauto. Da quel momento compresi che non avrei potuto amare nessun altro gruppo così. Quei due ragazzini, Kruger e Roberto, ora sono in riva al mare a Civitanova quando in una meravigliosa notte d’agosto (ancora di martedì) il pifferaio magico intona “Living in the past”. Eh già, un ritorno al passato che non ha nulla di scontato. Dove non c’è spazio per la nostalgia. Il sound è ancora potente, forse più maturo ma integro nella sua indistruttibile energia “progressive”. Certo, siamo tutti un po’ cambiati. E mentre i nostri corpi si lasciano andare al tempo che scorre e ci consuma, la passione del rock sembra intatta. Quarantacinque anni dopo succede che tutto appare diverso tranne la musica che punta sempre dritta al cuore. Volevo raccontarvi questo per spiegare che la musica è come la nostra anima, non è mai in balìa del tempo. Riesce ad entusiasmarci o ad annoiarci. Ci rende dentro più belli e più brutti. Ecco, oggi sono più felice, c’è Roberto, c’è Ian Anderson e ci sono ancora pure io che continuo a commuovermi grazie a quel concerto del 1971 che non è finito mai… E intanto arriva il bis con “Locomotive Breath” e Ian canta “The train won’t stop going | no way to slow down.” In quel verso, “Il treno non si fermerà | non c’è modo che rallenti”, ci trovo l’allegoria della nostra vita che passa.
Kruger Agostinelli
Intorno ai ricordi di Kruger che si materializzano, c’è l’universo di Ian Anderson e dei suoi Jethro Tull. È fatto di t-shirt con la copertina di “Thick as a brick”, con l’inconfondibile silhouette del “pifferaio magico” che suona su un piede solo, o con la scritta “To old to rock ‘n’ roll – too young to die!”. L’orgoglio con cui sono indossate è lo stesso di quando sono state acquistate, in un tour di tanti anni fa o nello stand appena fuori l’Arena del Mare. Magari c’è solo qualche capello bianco in più. Ma tra le migliaia di persone che sciamano verso l’ingresso, si respira l’atmosfera del grande concerto. Non si tratta, però, di gente che vuole “vivere nel passato”. Perché il prog-rock di Ian è ancora avanti: lo era negli anni ’70, lo è ancora oggi. E, soprattutto, perché tra il pubblico c’è il teen-ager che con le dita mima l’inconfondibile riff iniziale di “Aqualung” ora proposto con maestria da Florian Opahle, acclamato chitarrista. C’è chi alza ancora accendini tra la moltitudine di nativi digitali che usano i flash o i display degli smartphone per illuminare le note che escono da quel flauto. Suadenti, potenti, senza età. E, soprattutto, c’è lui, ancora su un piede solo, celtico menestrello con bandana. Che un età ce l’ha, 69 compiuti proprio mentre lasciava il palco. Ma che regala momenti di immortalità. Ultima annotazione sull’Arena del Mare, per una notte “seventy” in tutto e per tutto. Un grande spazio coperto di verde dove, nei punti più lontani dal parco, c’era chi si è seduto sull’erba o sdraiato su una coperta, chi si è portato il cane, chi pargoli in passeggino, chi bimbi liberi di scorrazzare, chi si è appartato per un bacio furtivo. E la mente torna ai grandi raduni rock di un’epoca che, forse, è destinata a non tramontare per quel che ha proposto in musica.
Emanuele Pagnanini
(Federico De Marco foto e video)
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