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luglio 2016

E’ l’ora del primo Tyche Festival con Tiromancino, Capossela e Jethro Tull a Civitanova

in Concerti/Eventi da

Tre appuntamenti nell’arco di cinque giorni in cui sono concentrati generi e generazioni musicali diverse tutte, però, sotto il segno di una qualità eccelsa. È il Tyche Festival che dopo aver scoperto un’inedita location (già sperimentata con i concerti di Goran Bregovic l’anno scorso e di Francesco De Gregori a luglio) propone live di caratura nazionale ed internazionale. Il posto è l’Arena del Mare (area Tiro a Volo) a Civitanova Marche, un verde prato che si staglia sull’azzurro dell’Adriatico. Il cartellone è stato concepito per rendere omaggio alla musica pop italiana grazie al gruppo più rappresentativo del momento, ad un cantautore immenso, sempre più impegnato alla ricerca delle radici della musica popolare italiana e ad una pietra miliare ed una leggenda del rock di tutti i tempi: giovedì 4 agosto i Tiromancino, sabato 6 agosto Vinicio Capossela e martedì 9 agosto Jethro Tull’s Ian Anderson.

TIROMANCINO 4 AGOSTO  Tiromancino Tyche Festival 2016

Parlando della band di Federico Zampaglione, ha una genesi marchigiana il tour con il quale sta girando l’Italia: “Nel respiro del mondo”, infatti, è stato preparato al teatro di Cagli dove lo scorso maggio si è tenuta la data zero del live con cui i Tiromancino presentano il loro ultimo lavoro. Un album che segna il ritorno ad una scrittura solida e concreta, confermando il talento autoriale del frontman del gruppo. Stile Tiromancino che emerge negli arrangiamenti con cui si unisce il nuovo repertorio ai pezzi storici. Francesco Stoia (basso), Marco Pisanelli (batteria), Antonio Marcucci (chitarra elettrica) e Fabio Verdini (tastiere) propongono anche stavolta uno spettacolo coinvolgente. «Abbiamo trovato un mare umano ad attenderci… E noi lo abbiamo navigato». Così i Tiromancino hanno descritto le date che precedono il concerto di Civitanova.

 

Vinicio Capossela Tyche Festival 2016

VINICIO CAPOSSELA 6 AGOSTO

Vinicio Capossela propone il frutto di 13 anni di lavoro che arriva a 5 anni dal suo ultimo album. Con “Canzoni della Cupa” riesce a reinterpretare la tradizione popolare. Un doppio album, con un titolo per ogni lato: Polvere e Ombra. Risulta doppio anche il tour: “Polvere” è il concerto proposto quest’estate, all’aria aperta: “Ombra” sarà la tournée che partirà in autunno al chiuso dei teatri. In “Canzoni della Cupa” si esprime un mondo folclorico, rurale e mitico. Il live che Capossela ne ricava è «un concerto radicale» (definizione dello stesso artista). Un lavoro cui hanno preso parte Flaco Jimenez, Calexico, Howe Gelb e Los Lobos, espressione della migliore musica popolare italiana rappresentata da Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Giovannangelo De Gennaro, senza dimenticare altri straordinari musicisti come Victor Herrero, Los Mariachi Mezcal, Labis Xilouris, e Albert Mihai.

Jethro Tull Tyche Festival 2016

JETHRO TULL’S IAN ANDERSON 9 AGOSTO

Infine il concerto dei Jethro Tull’s Ian Anderson, ovvero quando la leggenda sale su un palco. L’uomo che ha reso popolare il flauto nel mondo e che conta all’attivo più di 65 milioni di dischi venduti e più di 3mila concerti in 40 paesi, prosegue la sua lunga stagione creativa. Il pioniere del progressive rock torna in Italia con otto gli appuntamenti lungo lo Stivale, l’ultimo dei quali proprio a Civitanova. Chi assisterà a questo concerto, avrà il privilegio, allo scoccare della mezzanotte, di intonare “Happy Birthday” per Ian Anderson che il 10 agosto compirà 69 anni. Con sé avrà i musicisti che lo affiancano da diverso tempo: John O’Hara alle tastiere, David Goodier al basso, Florian Opahle alla chitarra, Scott Hammond alla batteria. E accompagnerà fan vecchi e nuovi sui sentieri di un repertorio che ha fatto la storia del rock. L’energia live di brani come “Aqualung”, “Thick as a brick” o “Locomotive breath” tornerà possente per la gioia di platee innamorate dei Jethro Tull.

 

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Tyche Festival a Civitanova con Tiromancino, Vinicio Capossela e Jethro Tull’s Ian Anderson

in Concerti/Eventi da

Tre appuntamenti nell’arco di cinque giorni in cui sono concentrati generi e generazioni musicali diverse tutte, però, sotto il segno di una qualità eccelsa. È il Tyche Festival che dopo aver scoperto un’inedita location (già sperimentata con i concerti di Goran Bregovic l’anno scorso e di Francesco De Gregori a luglio) propone live di caratura nazionale ed internazionale. Il posto è l’Arena del Mare (area Tiro a Volo) a Civitanova Marche, un verde prato che si staglia sull’azzurro dell’Adriatico. Il cartellone è stato concepito per rendere omaggio alla musica pop italiana grazie al gruppo più rappresentativo del momento, ad un cantautore immenso, sempre più impegnato alla ricerca delle radici della musica popolare italiana e ad una pietra miliare ed una leggenda del rock di tutti i tempi: giovedì 4 agosto i Tiromancino, sabato 6 agosto Vinicio Capossela e martedì 9 agosto Jethro Tull’s Ian Anderson.

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Hilde Soliani e la pesca Saturnia: un viaggio tra profumi e sapori mitologici

in Itinerari da

Quaranta ettari di frutteto dal sapore mitologico. Il naso più sensibile di questa terra. Un profumo che sta conquistando il mondo. Hilde Soliani, la sua creazione “Il Tuo Tulipano” e la pesca Saturnia. Cronaca favolosa di un pomeriggio a Montecosaro fra filari carichi di pesche, grandi e schiacciate come satelliti lontani, vellutate e rosse rubino (vivo) con impercettibili sfumature dorate. Le pesche Saturnia accolgono Hilde Soliani. Che anni fa creò “Il Tuo Tulipano”, il suo profumo più venduto nel mondo (perché si sta su questa terra anche per fare business) partendo da una base di agrumi che stabilizzò con la pesca. Questo incontro si doveva fare. E si doveva fare nel migliore dei modi. Francesco Annibali è il nostro cicerone. Sa tutto di queste pesche. Della loro polpa gialla, dolce, soda e succosa. Della buccia “pelosa”, buonissima da mangiare. Di come l’alta cucina le osanna non solo nei dolci. Rendendole sublimi con pesce crudo, cozze, carni importanti, formaggi, salumi ecc… Di come sono apprezzate da un pubblico colto e attento. Di come sono belle. Hilde è qui con il suo fotografo personale Marco Bargnesi, con il suo abito “di scena” e con “Il Tuo Tulipano”. Il sole che scende sul frutteto scalda l’obiettivo e i nostri animi. Perché ci sono anch’io. Gancio “profumato” per l’occasione fra Hilde e le pesche. L’abito è bianco, quasi mistico, tagliato dal sarto Ettore Matera di Catanzaro. Una miriade di bottoncini da allacciare uno per volta rendono magico il rito della vestizione. Tanto le pesche ci aspettano. Francesco si allontana discreto ma continuiamo a parlare. Le coltivazioni vengono effettuate seguendo un rigido disciplinare che tutela al massimo la pianta e il consumatore. È o non è la Saturnia una pesca da mangiare con la buccia? A qualcuno piace molto. È croccante e non amara. E la sensazione di velluto rende la masticazione piacevole. Scrocca in bocca come fosse non ancora matura ma poi si arrende deliziosamente.

Hilde Soliani profumo saturniaHilde vestita di bianco si muove sinuosa fra i filari. Ha in mano “Il Tuo Tulipano” e lo spruzza fra i rami, sotto le pesche. Il sole ferma con la sua luce le bollicine vaporizzate. Se volevamo un’emozione ecco, ora c’è. Il pescheto profuma de “Il Tuo Tulipano” e “Il Tuo Tulipano” di pesca. Mentre spiego a Francesco che queste foto faranno il giro degli amici di Hilde che sono miriadi come i bottoni bianchi del suo abito, la stessa Hilde coglie la prima pesca e gnam! «Ma è buonissima! Sembra il Tuo Tulipano». Un viaggio annunciato questo qui. Poi ci spruzziamo profumandoci a vicenda e Francesco, serio professionista del mondo del vino e della comunicazione, sta al gioco e capisce che ormai stasera va così. Si torna a casa profumati di agrumi fissati da una pesca. Che qui, con il nome di Saturnia, è un marchio registrato dagli anni ’80. Mantenuta in purezza, coltivata e venduta dall’azienda agricola Laura Eleuteri, un’eccellenza dell’agricoltura marchigiana. Che merita di essere ammirata in tutta la sua bellezza. I filari sono bassi e raccolti. Nel mezzo coltivazioni in difesa e di sostegno sembrano un innocuo prato verde. Hilde cammina scalza e Marco la segue catturando lei, le pesche, le foglie, i rami, i raggi di sole, il profumo frizzante, il calore della sera che sta andando via. Ci fermiamo a parlare di cuochi e di ricette. Di quello che fanno gli stellati con le fette, il succo e l’essenza della Saturnia. Hilde dice la sua. Ne mangia e ne conosce tanti di cuochi a questo mondo. Francesco comincia a fare domande e, mentre mi accollo l’onere della “svestizione” slacciando uno ad uno i bottoncini bianchi, inizia fra loro un gioco che suona così: «Vissani? Il meglio. Bottura? Ci penso. Uliassi? Il mio preferito. Lo Priore? Un genio come il suo Maestro Marchesi. Il più grande di tutti». Sarebbe bello raccogliere in una guida tante ricette di grandi cuochi dedicati alla Saturnia e presentarla con Hilde e ‘Il Mio Tulipano’ nel frutteto la prossima estate. Francesco ci starà già pensando. Come abbiamo chiuso il bellezza il nostro mitico incontro con la Saturnia? Da Rosaria Morganti ai Due Cigni. Ma questa è un’altra storia. Per info: www.pescasaturnia.it.

Carla Latini

Clan we Are, il brand di t-shirt nato in famiglia: appartenenza e ispirazione wild

in Moda da

Faccio un’incursione in un campo in cui solitamente non scrivo, quello della moda. Di questo articolo non può occuparsi Alessandra (di solito tocca a lei) perché Clan we Are, il brand di t-shirt di cui parlo, è anche suo. Suo, del fratello Marco e dei genitori. Una realtà che nasce e si sviluppa nell’ambito familiare, portata avanti parallelamente agli impieghi di ciascuno. Un marchio che ha solo pochi mesi di vita. clan we areL’ispirazione, fortissima, è quella del mondo selvaggio. Sullo sfondo del logo campeggiano infatti delle pitture di guerra. Come mai proprio le pitture di guerra? «Le tribù guerriere le usavano come incantesimo protettivo – spiegano Marco e Alessandra – servivano ad affrontare con coraggio le proprie battaglie. Ecco, indossare un indumento che ci faccia sentire a nostro agio è un po’ la stessa cosa. Aiuta ad iniziare la giornata con una carica diversa. Facci caso: la mattina, quando sappiamo che ci aspetta una prova difficile, magari non ce ne accorgiamo ma ci vestiamo di conseguenza. Senza saperlo stiamo indossando le nostre pitture di guerra».
Ispirazione “wild” e attività familiare. Ecco il motivo del nome: “clan” è solo un altro modo (un modo un po’ selvaggio, in effetti) di dire famiglia. Non necessariamente il nucleo formato da genitori e figli. clan we areLa sezione del sito dedicata alla filosofia del brand parla chiaro. «Può essere la tua famiglia, il tuo gruppo di amici o chiunque tu voglia: se fai parte di un clan non sarai mai solo». Radici e appartenenza. «Pensa per esempio – dice Alessandra – a un gruppo di amici lontani. Che magari si sono visti ogni giorno fra i banchi di scuola e si preparano ad affrontare l’Università in diverse città d’Italia. Un modo per sentirsi uniti potrebbe essere proprio scegliere un indumento che li rappresenti e procurarsene uno ciascuno. Mi sarebbe piaciuto possedere qualcosa del genere durante gli anni universitari: pensa che conforto, che coraggio può darti affrontare un esame indossando un capo che ti faccia pensare alle persone che ami. È una piccola cosa, certo, ma se non sono pitture di guerra queste!».
Il mood si traduce nella scelta dei soggetti: totem, animali selvaggi, frecce e acchiappasogni di ispirazione nativa, stampati su canotte e t-shirt da uomo e da donna. Alle grafiche lavorano Marco e Alessandra, combinando disegno digitale e tecniche manuali come la creazionedei lettering e l’acquerello. Questa fase è preceduta da un lungo periodo di ricerca dell’ispirazione che coinvolge tutta la famiglia. C’è poi la scelta della t-shirt, del modello più adatto, a cui segue la clan we areprova di stampa. Se tutto va bene, si procede. Quando c’è l’indumento finito parte la fase “social”: si scattano le foto, si aggiungono i prodotti al negozio online e si condivide tutto sul web. Dell’e-commerce si occupa Gabriella, la mamma. Compresa la parte relativa al packaging, una confezione personalizzabile in cartone ondulato che ricorda vagamente la forma di una freccia. Mentre Giuseppe, il babbo, cura la vendita al dettaglio, esponendo le t-shirt a San Severino nel suo negozio di… piante e fiori. «Sarà arrangiato – mi spiegano – ma è necessario affiancare all’e-commerce la vendita “fisica”, ai social network il passaparola, al sito web la rete di persone del nostro paese. In fondo, lo spirito di Clan we Are è anche questo: l’importanza delle proprie radici. Avevamo uno spazio a disposizione e ne abbiamo approfittato. Certo, indubbiamente è una cosa insolita».

Progetti futuri? «Di recente abbiamo venduto un piccolo carico di t-shirt a un negozio di abbigliamento. È stata la prima volta. Abbiamo poi avuto una prima esperienza come espositori al Toc Festival di Tolentino. Sono due strade che vorremmo continuare a percorrere, parallelamente all’e-commerce. E poi, come dicono in una ben nota saga fantasy, l’inverno sta arrivando: stiamo pensando di aggiungere qualche felpa alla collezione. Vedremo».

www.clanweare.com

Kruger Agostinelli

Maria Letizia Gardoni: da “Un Podere sul Fiume“ alla presidenza di Coldiretti Giovani

in Mangiare e bere/Senza categoria da

Maria Letizia Gardoni Coldiretti TycheCosa vuoi fare da grande? «O la guardia forestale a cavallo o vivere e lavorare in una fattoria». Era “piccina piccina” ed aveva già le idee molto chiare l’attuale presidente dei Coldiretti Giovani Impresa. Maria Letizia Gardoni, “Titti“ per gli amici, conduce il suo “Un Podere sul Fiume”, ad Osimo.

Si trova a due passi da casa mia. Dire che la conosco da quando aveva 3 anni, forse meno di 3 anni, è doveroso e (orgoglio di mamma!) sono felice di scrivere su di lei. Che da “piccina piccina” è diventata una splendida donna, bella fuori ma ancora di più bella dentro. Me la ricordo quando il nonno la portava all’asilo. Lei e la mia Teresa, le più piccole e le più caparbie. Sarà stato il nonno a farle sentire subito il profumo ed il sapore della terra? Voglio credere che sia così.

Quando è scattata la “voglia di campagna”?

«Credo di averla sempre avuta. Sono cresciuta in campagna, circondata da verde e animali. Da piccola, come ben sai, volevo fare o la guardia forestale a cavallo o avere una fattoria tutta mia. Ho studiato, ho fatto il classico, l’Università, scienze tecnologiche agrarie. Poi, un giorno mentre ero in aula, ho sentito una spinta dentro, fra cuore e pancia. Dovevo dare un altro senso alla mia vita».

E quindi?

«Mi sono alzata (come in un film n.d.r.), sono uscita dall’aula, sono tornata a casa. Ho riorganizzato le idee e ho deciso di investire in un terreno proprio accanto a casa mia. Dieci ettari che volevo diventassero miei. Il mio podere sul fiume. E si chiama proprio così. Avevo 19 anni. Ho provato subito il piacere unico di toccare e lavorare la terra con le mie mani. Qui ho cominciato a coltivare frutta e ortaggi seguendo il disciplianare macrobiotico».

Vicino al biologico, biodinamico, fammi capire…

«Molto di più. La filiera macrobiotica è molto rigida. Nasce dal pieno rispetto della terra e della natura. Si avvale di antiche varietà recuperate, si basa sul concetto dell’autoriproduzione di alcuni semi, seguita con molta cura. È un modello agricolo quasi perfetto che credo possa salvare l’agricoltura italiana. Dobbiamo puntare i piedi con competenza. Credere che coltivazioni alternative fra i meravigliosi filari di un frutteto possano essere un modello agricolo da seguire».

Nelle Marche, a Macerata, sapevo che ci sono esempi interessanti, vero?

«Sì è vero. C’è il Guru della macrobiotica, che ancora non conosco ma che seguo nei suoi insegnamenti. Si chiama Mario Pianesi. Lui ci spinge verso il recupero dell’educazione alimentare. Verso un benessere naturale. Un benessere che riguarda la qualità del cibo e la qualità della vita delle persone. Il ruolo del contadino diventa così strategico e determinante per la nostra salute».

I contadini, gli agricoltori, vengono spesso accusati di “inquinare”, condizionati dall’industria?

«Ecco perché dobbiamo puntare i piedi. Voglio far capire agli agricoltori, e i giovani sono tutti su questa strada, che non si tratta di un’attività agricola e basta. Si tratta della vita di ognuno di loro. Sono loro che vivono la loro terra. Tempo fa ci si condizionava in campagna con gli interventi (nitrati spesso) chiamati a calendario. Anche se il campo era sano si interveniva ugualmente. Quel calendario ha fatto molti danni. Oggi i coltivatori hanno preso coscienza di essere i primi tutori e responsabili del loro territorio. Una terra da lasciare alle generazioni che verrano. Una terra sana».

Ecco che arriva l’anima combattiva che conosco in te. Come ti senti in questo ruolo così importante e di grande responsabilità?

«Fare la presidentessa dei Giovani Coldiretti mi entusiasma ogni giorno di più. All’inizio ero un po’ smarrita. Come è normale che sia. Oggi cresco con loro. Sono più di 70mila giovani fra i 18 e i 30 anni. Preparati, colti, pieni di energia, di voglia di fare e di idee. Che facciamo generosamente circolare. È una fucina sempre in attività. Li sostengo, li difendo, li appoggio e li aiuto in ogni modo. Ora sono serena e il mio lavoro va molto bene».

Torniamo ai frutti macrobiotici della tua terra. Che canale di vendita seguono?

«Tutti i canali che desiderano distinguersi e fare dell’alimentazione una sana alimentazione. Un’alimentazione che previene e ti fa stare bene. Sono i ristoranti, i punti vendita, i centri macrobiotici. Dove non si mangia e basta, ma si fa cultura alimentare».

A proposito, cosa mangia Maria Letizia Gardoni?

«Tutti i prodotti sani della terra che abbiano una “carta di identità”. Amo il riso integrale che coltivano miei amici in nord Italia. Lo abbino alle verdure del mio orto. Mangio sempre e solo stagionale. Mi faccio il pane in casa, che mi viene benissimo. Mi “nutro” di olio extra vergine marchigiano. Dei formaggi dei nostri allevamenti. E poi, girando l’Italia agricola, ci scambiamo i prodotti a e posso godere della bontà delle tante varietà antiche recuparate. Dagli ortaggi alla frutta, dai legumi ai cereali, dalle carni ai formaggi. Il meglio che la biodiversità italiana ci offre».

Grazie Maria Letizia, è stato bello parlare con te. Andiamo insieme a trovare Mario Pianesi un giorno?

«Con molto piacere! Grazie a te».

Carla Latini

 

La Storia tra i fornelli nel nuovo libro di Carlo G. Valli: “Un cuoco costava più di un cavallo”

in Mangiare e bere da

La rutilante energia di Massimo Biagiali ci presenta l’ultimo libro di Carlo G. Valli: “Un cuoco costava più di un cavallo.

Nella deliziosa cornice del teatro di San Lorenzo in Campo ho rivisto con molto piacere l’affasciante professor Carlo Giuseppe Valli. Docente di marketing e comunicazione, è storico e ironico conoscitore e narratore del passato visto con gli occhi del presente per guardare al futuro.

L’argomento cuochi, ora più che mai chiamati chef (Gualtiero Marchesi che ha scritto la prefazione non approverebbe), è “caldo” come le ricette che entrano nelle nostre case attraverso tutti i media. Massimo Biagiali modifica il titolo, giocando ma non troppo, in: un cuoco è matto come un cavallo. Ci racconta delle sue esperienze passate e, con affetto, di un cuoco giapponese che ha imparato da lui ed ha aperto in Giappone una “succursale” de Il Giardino. Per fare questo mestiere bisogna avere la testa “calda”. Calda perché vicino ai fuochi. In sala si ride. Il giovane sindaco di San Lorenzo, Davide Dallonti (lo ascolto per la seconda volta, che mi conferma quanto sia preparato e dedicato) aggancia alle parole di Massimo temi cari a tutti che sono il territorio, la storia di esso, i prodotti e quindi dà al cuoco l’importante compito di divulgare e valorizzare luoghi e frutti della terra. Qualche ora prima Carlo ha incontrato Federico Ramenghi, sociologo della biblioteca del Comune, filosofo appassionato di eno-gastronomia. Insieme si sono confrontati sull’argomento. È proprio Federico che intorduce Carlo. Cominciano insieme e poi Carlo va da solo a ruota libera e vorrebbe donarci ogni riga del suo libro. Ci piace ascoltarlo. È un abile oratore. Sembra di essere sull’Agorà a trattare con il cuoco di turno.

Entriamo nella storia dal passato più lontano e scopriamo che il mestiere del cuoco è vecchio quanto il mondo. Fin dai tempi dell’antica Grecia quando si saliva sull’Agorà per reclutare un cuciniere. Che serviva per grandi banchetti, feste, ricorrenze. Costava veramente più di un cavallo. Era l’artefice, mercenario di natura, di sapori, alimenti, ricette. A lui il compito, nel corso degli anni, dell’evoluzione del gusto. Accadeva così nell’antica Roma, nel Medio Evo, nel Rinascimento. Abbiamo testimonianze di grandi cuochi osannati, portati alle stelle, strapagati ma anche frustati, puniti quando si trovavano in difficoltà durante il loro duro lavoro. Perché è sempre stato un lavoro duro. Faticoso. Al cuoco veniva lasciato anche il compito di organizzare le feste, i giochi, i divertimenti. Tutto il contorno che animava un grande banchetto. Che magari durava giorni. Con Carlo scopriamo che il giovane Leonardo Da Vinci aveva aperto insieme a Botticelli una locanda/osteria a Firenze. Leonardo stesso, quando si presentò a Ludovico il Moro, tesse lodi sulla sua arte culinaria. Come oggi “quanta folla nelle cucine”. Scriveva Senaca: “Conta i cuochi…quanta calca intorno ai focolari degli scialacquatori e… quanta solitudine nelle scuole dei retorici e dei filosofi”. Quindi, nulla è cambiato? Anche nell’antichità i grandi cuochi si circondavano di allievi fedeli. Più ne avevano e più erano grandi. La brigata di cucina ha qualcosa di “militare” e non solo qualcosa, nei nomi e nel gergo che viene usato. La squadra in cucina non deve andare in m… merde en francais perché i commensali, gli ospiti, devono mangiare bene e tutti insieme. Veniamo a conoscenza di un Macchiavelli critico sulla qualità dei vini delle osterie milanesi. A quei tempi si sceglieva un’osteria non perché si mangiava bene ma perché si beveva bene. Molti cuochi, negli anni, si specializzarono anche nella lista dei vini da abbinare ai lunghi menu. Escoffier scriveva, nel Libro dei menu, che la lista delle vivande doveva riflettere lo stato d’animo dei padroni di casa, doveva essere curata e stilata insieme a loro. Ed il cuoco doveva essere messo al corrente del motivo del pranzo che stava per preparare. Festoso? Politico? Strategico? Quindi cuochi “potenti”, consiglieri dei loro padroni. Fedeli? Molto poco. E molto poco rimane nella storia della figura del cuoco/uomo. Se pensiamo a Vatel che si uccise per un banchetto mal riuscito o se pensiamo a quanta sofferenza e disperazione provoca la perdita di una ‘stella’ possiamo dire che veramente nulla è cambiato. Ma quando nacquero i ristoranti? Fino a prima della Rivoluzione Francese esistevano le osterie, le bettole. Dopo il 14 Luglio pochi erano quelli che potevano permettersi un “cuoco di corte” e così i grandi chef organizzati presero, spontaneamente, l’unica strada possibile: attirare in una nuova formula di osteria, appunto il ristorante, gente colta e gaudente che voleva mangiare bene e bere meglio. Prima di chiudere Carlo strizza un occhio alle Marche: «Ma lo sapete che i più grandi cuochi scrittori che hanno lasciato ricette e analisi di prodotti sono marchigiani?». I nomi? Leggete il libro e lo scoprirete. Concludo con le parole “conclusive” di Gualtiero Marchesi: “il cuoco ha innanzi tutto il dovere di fare salute, di non improvvisare. La creatività arriva, se arriva, con l’esperienza. L’arte in cucina è di tutti ma non per tutti”. Con la lettura di “Un cuoco costava più di un cavallo capirete meglio questo mondo fatto di cucinieri, di artigiani della cucina, di bravi intepreti e di qualche artista genio. Come mi disse un giorno Vittorio Sgarbi: quando mangio i piatti di Vissani capisco che gli altri sono cuochi e lui è un genio. Posso solo che confermare. Buona lettura!

Carla Latini

Brunelli racconta il suo gelato. Storie golose da Agugliano a Senigallia

in Mangiare e bere/Senza categoria da

Paolo Brunelli: il gelato è morto. Evviva il gelato! Per noi marchigiani, lui è il Maestro gelatiere visionario. Da Agugliano a Senigallia attraverso esperienze e stage mondiali. Venite con me nell’entourage gelato, caldo, dolce, salato, colto, semplice, laborioso (nel senso di vera e propria fatica) di Paolo Brunelli. Mi sono letta la sua biografia e ne so tante. Ma oggi voglio sentire il suo racconto. E attacco subito.

Come mai Agugliano?

«Ammetto che è un paesino destinato a “terra di mezzo“. Bel paesino, terra importante. Senza identità grazie all’abuso edilizio (e dove non c’è stato?) senza identità culinaria. Ma qui c’è la Locanda di mamma Maria Luisa Berardi sorella di un personaggio illustre della eno-gastronomia marchigiana. Che tanti devono ricordare: Ilario Berardi».

E così, io, Carla Latini, torno indietro di tanti anni quando cucina e vino contaminavano la musica. Con Ilario ho fatto cose belle in radio e la sua/nostra trasmissione si chiamava Culinaria. Poi chiedo a Paolo.

Ma tu quanti anni avevi per seguire le intuizioni di zio Ilario?

«Ne avevo 12. Sono cresciuto in cucina. Fra mamma e zio Ilario. Ho ereditato le ricette dell’epoca. Mamma pensa alla cucina e il gelato non è nemmeno la ruota di scorta. Ma a me piace e zio Ilario mi incoraggia e mi prende accanto a sé mentre diventa la figura più colta del mondo del vino nelle Marche».

Non dirmi che sei stato tu a fare tutti i sorbetti del mio matrimonio? Mi sono sposata nel 1984 e Ilario è stato il mio cuoco/mentore/guida/amico…

«Sono stato io. Cucina e gelato, gelato e cucina. I prodotti unici e delineati che sceglieva zio. Ed io lì a seguire innamorato. Ma c’era poco spazio e quindi, anche se la mia ambizione era forte, ho scelto di fare il musicista. Erano i primi anni ’90».

E poi che è successo?

«È successo che, senza scendere a compromessi o magari perché doveva andare così, sono tornato a casa. Il bar gelateria era il mio laboratorio. Per anni ho lavorato in un laboratorio sotterraneo: poca luce viva, poco spazio ai sogni fino a quando questi non sono diventati così grandi da richiedere uno spazio più grande e in emersione. Quel sotterraneo di Agugliano è stato il laboratorio della mia professione. Lì sono stati fatti i tentativi maggiori, lì ho cominciato a sperimentare gli abbinamenti, le materie prime e a cercare un gelato che potesse essere un piatto da gourmet. Cercavo soddisfazione, cercavo il plauso, cercavo anche la popolarità nei miei sogni. È stato così che tra mille peripezie sono riuscito a creare la mia professione. Ho azzardato con l’acquisto di macchinari che sapevo sarebbero stati indispensabili, ho scommesso su un processo di lavorazione controcorrente: “Il gelato da Brunelli finisce”. Un messaggio forte quello di fare capire che da me il gelato si fa tutti i giorni e che se ho calcolato male la richiesta e non ho ponderato bene gli imprevisti, benché vengano definiti tali proprio perché non misurabili, quel gusto di gelato potrebbe non esserci più fino al giorno dopo. Ho combattuto non poco per scegliere una strada nella strada, ovvero quella di fare un vero gelato artigianale. Una scelta che ancora pesa, che non dà grandi soddisfazioni economiche, ma che ha un riscontro totale in chi è particolarmente attento al gusto e anche in chi si approccia per la prima volta al mio modo di concepire il gelato».

Un gelato non gelato ma un gelato che vale tutti i giorni e in tutte le stagioni e con gli ingredienti fuori dagli schemi classici, che scegli tu?

«Brava, hai toccato il tasto/gelato giusto: gli ingredienti. Fare un gelato con il pistacchio (vero) di Bronte o con il cioccolato del quale mi sono profondamente innamorato grazie all’aiuto di grandissimi maestri internazionali e nazionali. Azzardato farlo con un caprino dop e un pomodorino idem… E poi la mia esperienza nel campo della degustazione del vino prima e del tè poi, ha generato un rapporto quasi maniacale per la ricerca del gusto. Come cioccolatiere mi ritengo perciò abbastanza atipico. Ma erano i primi anni ‘ 90 quando pochi ma intelligenti clienti facevano chilometri dalla costa all’interno per venire da me».

Contaminazione gaudente dal dolce verso il salato. Il gelato fine a se stesso che entra nell’alta pasticceria e nella cucina. Il gelato piatto gourmet. Un giorno poi qualcuno ti ha portato Silvio Barbero di Slow Food (allora co-fondatore Slow Food e marchigiano per amore)…

«Mi ha detto che dovevo credere in me e uscire fuori. Mi sono fatto forza, ho investito ed ogni giorno ci penso. Ad Agugliano è rimasto il laboratorio ricerca sul cioccolato. A Senigallia, dove ti aspetto (verrò presto lo giuro! ndr), il laboratorio ricerca sul gelato. Credo nell’uso funzionale del gelato. Questo pensiero ha generato il Festival del Gelato. Erano periodi di avanguardia. Periodi non sospetti. Nessuno poteva sapere dove la mia “visione” stava andando. Il buio degli anni passati. Il buio del laboratorio di Agugliano da dove facevo andare via i clienti ora non esiste più. Anzi, è diventato luce».

Una luce che risplende grazie anche al Festival del Gelato di Agugliano. Nato nel 2010 che coivolge Maestri gelatieri da tutto il mondo. Questo voluto da te. Quando la Crema Brunelli, un evergreen che tu paragoni a “Ti amo” di Umberto Tozzi con la crema alla nocciola tradizionale, il cioccolato, il Varnelli che non manca mai insieme all’olio extra vergine hanno detto: il gelato da Brunelli finisce! 

«E continua ad essere quello che ora è, dopo 30 anni di miniera, senza togliere alcun rispetto a chi la fa veramente, meritandomi, scrivilo (sicuro che lo scrivo! ndr) la bellezza che mi circonda. Sarò al Salone del Gusto lungo la via del Gelato. Lunga ancora da percorrere. Bella, dolce, salata, nel mio cuore».

Come si fa a chiudere uno scambio di sentimenti, idee e ricordi così? Non si chiude si tiene aperto. Con il sorriso di Paolo Brunelli che, mi sono dimenticata ma non credo sia necessario ricordarlo, vanta premi e riconoscimenti nazionali e internazionali.
Vi aspetta a Senigallia, via Carducci.

Carla Latini

Strepitosi Deep Purple al concerto di Servigliano. Ed ora in arrivo Ian Anderson e i suoi Jethro Tull

in Concerti/Eventi da

Ottomila fans per i Deep Purple all’appuntamento rock di Servigliano, live ieri sera, lunedì 18 luglio, con tre giorni di ritardo a causa del maltempo. Un concerto per pensionati? Tempi duri per chi voleva minimizzare la grandezza della musica rock e dei loro autentici protagonisti. Pubblico di tutte le età, con una sorprendente formula padre più figlio. In un’epoca di valori da recuperare, il rock sembra proprio un bel collante. Deep Purple edizione 2016 ha tre pilastri della fine degli anni ’60, ovvero Ian Gillan alla voce, Roger Glover al basso e l’inossidabile Ian Paice alla batteria. A loro si sono aggiunti, ormai da ben 23 anni, il chitarrista Steve Morse al posto di Ritchie Blackmore, mentre all’inizio del millennio ha concluso la mutazione Don Airey alle tastiere che prese il posto di un altro fondatore, John Lord, scomparso pochi anni fa. Quasi cinquant’anni di successi da proporre e non si sono smentiti, iniziando con una perfetta “Highway Star”. Immancabili i virtuosi assoli di ogni musicista ed una chiusura mozzafiato con “Smoke on the Water”. Preludio per un bis al fulmicotone con il loro primo singolo di successo “Hush” e dulcis in fundo l’immancabile “Black Night”.

Lo spazio concerto era stato aperto alle 15.30 cosicchè altre sei giovani band hanno potuto regalare musica in questo indimenticabile pomeriggio musicale. E il sogno rock in una notte d’estate non finisce qui, il 9 agosto siamo complici proprio noi di Tyche Magazine che nel nostro festival porteremo un’altra leggenda degli anni settanta, il flauto di Ian Anderson con i suoi Jethro Tull.

Kruger Agostinelli

(foto di Federico De Marco)

Montecappone e i suoi vini, dall’Utopia alla scommessa bio. Sempre con passione e fantasia

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Cantine Montecappone foto by KrugerOgni occasione è buona per bere i vini di Montecappone di Jesi. Fine maggio, Cantine Aperte. Sono da Gianluca e Annarita Mirizzi. Amici da tanti anni. Trasferiscono la loro energia, la loro emotività e la loro precisione maniacale nei vini che producono insieme al loro staff di agronomi ed enologi capeggiati da Lorenzo Landi. Quindi c’è amore, fantasia, passione, tecnica e virtuosismo in un mix di assoluto valore. Un grande vino nasce in vigna e la Montecappone possiede 54 ettari di vigneti e 12 ettari di oliveto. Una fattoria davvero ben strutturata e con quasi cinquanta anni di attività. Prima di cominciare a fare due chiacchiere, Gianluca mi porge da assaggiare i suoi nuovi spumanti di Verdicchio e Sauvignon ottenuti con il metodo charmat lungo. Cinque mesi in autoclave e uno in bottiglia. Sono vent’anni che Montecappone coltiva e produce Sauvignon. Tra i primi nelle Marche. Passiamo ai Verdicchio fermi. Il Federico II, in onore a Jesi e alla sua storia, è un Verdicchio Classico Superiore giovane e fresco negli aromi, che ha un’ottima beva ed è di assoluta convivialità. La Riserva Verdicchio si chiama Utopia: affina almeno 18 mesi di cui 12 in vasche di cemento ed almeno 6 in bottiglia. Una scommessa all’inizio! Di più. Un’utopia. Da qui il nome: sarà utopia immaginare un verdicchio che invecchia oltre 10 anni? Scommessa ampiamente vinta. Poi c’è il Tabano Marche Bianco Igt, un blend di Verdicchio, Sauvignon e Moscato passito. Vino fruttatissimo e piacevolissimo che su una delle cinque guide nazionali riceve l’onorificenza di “Miglior Vino Bianco d’Italia”. Il Tabano Rosso è un blend di Montepulciano e Syrah, 12 mesi in barrique e il resto in cemento. Infine, ma non ultimo, Utopia Rosso Piceno doc, il top della gamma dei vini rossi, Montepulciano e una piccola parte di Sangiovese.

Parliamo delle novità. Gianluca ha sempre avuto la sua posizione, in linea con tutte le principali ricerche universitarie del globo, sui vini naturali, sui biologici. Le sfide, si sa, prima o poi vanno colte e, sorpresa per tutti, dal marzo prossimo ci sarà una nuova linea di Verdicchio bio che porterà il suo nome, Gianluca Mirizzi. Sei ettari di terra a Monte Roberto stanno dando vita a questa nuova avventura. «Sono mesi che combatto con il rame e lo zolfo come gli antichi romani…». L’uva raccolta sarà biologica al 100% e certificata. Ad essa verrà applicata la stessa tecnica enologica conservativa (quella che vuole che il vino sappia dell’uva con cui è prodotto) che ha fatto la storia della Montecappone. Tante belle cose nuove stanno per arricchire il rutilante panorama del mondo enologico marchigiano e non. E alla festa dei 50 anni di Montecappone noi di Tyche ci saremo.

Se volete altre info: www.montecappone.com, tel. 0731205761

Carla Latini

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